sabato 16 gennaio 2016

LE RECENSIONI AD CAZZUM - FILM: CREED

Io non lo so cosa stia succedendo ai film ultimamente, giuro che non lo capisco. Sarà che non ci sono in mezzo, non mangio pane e pellicola a colazione e in generale non ho le basi per ragionarci su, però mi fa davvero strano vedere un balzo di qualità mostruoso come quello osservato gioiosamente nelle sale cinematografiche da qualche mese. Di film belli ce ne sono sempre stati, questo è chiarissimo, ma mi è capitato di rado di vederne così tanti in così poco tempo. Mi è tornata una fame mostruosa di grande schermo, una voglia matta di prendere il biglietto, sedermi e fissare speranzoso davanti a me, nella consapevolezza che molto probabilmente i miei soldi sono stati spesi in modo adeguato.
Quindi sono qua, che osservo da una parte un’industria che non sa più cosa cazzo fare di nuovo e va a riesumare, anzi, dissacrare vecchi cadaveri nella speranza di fare un bel po’ di banconote sul culo dei nostalgici, e dall’altra un po’ di cervelli che, nell’occhio di un ciclone puzzolente fatto di riciclaggio e idiozia, si fanno i cavolacci loro e sfornano perle di rara bellezza. E in questo cerchio perfetto fatto di silenzio e secondi che passano sempre più lenti, mentre attorno gli elementi devastano tutto ciò che abbiamo di più caro, è arrivato anche un tizio di nome Ryan Coogler. Uno che ha deciso di metter mano a un nome che definire “leggendario” è davvero riduttivo. E io non sapevo chi fosse Ryan Coogler prima di vedere il suo Creed. Giuro, so che ha vinto premi con qualche cortometraggio solo perché Google me l’ha detto, però nell’occhio del ciclone ci è entrato accompagnato da Stallone, e se come secondo hai il buon Silvestrone non puoi essere l’ultimo arrivato. Proprio non puoi. Perché il cosiddetto “cinema di menare” (mi piacerebbe credere che moltissimi coglieranno la citazione de I 400 Calci, visto che un sito che dice tutto quel che vuole è una rarità e merita click, ma so che il mondo funziona diversamente) magari viene considerato inferiore a quello “d’autore” dalla critica, ma per noi che siamo cresciuti negli anni 90 queste sono solo gigantesche puttanate messe in giro da chi il cuore tra le esplosioni e i pugni non ce l’ha lasciato, o finge di non averlo fatto perché gli piacciono il té e i biscotti dei salotti buoni. E ok, bellissimi i film impegnati e tutto quanto, ma Schwarzy che mangia i berretti verdi a colazione e Stallone che urla “Adrianaaa” da piccolo mi hanno lasciato molto di più di un sacco di filmoni, e sono abbastanza sicuro di non esser l’unico a pensarla così.


Torniamo pertanto a Creed, che è ovviamente il cognome di Apollo Creed, e dovrebbe essere uno spin-off della serie Rocky incentrato sul figlio dello storico avversario/amico dello Stallone Italiano. Però uno spin-off non è, è più un seguito diretto, ed è uno di quei seguiti che può anche chiudere la partita, perché la parola “fine” meglio non la si poteva mettere.
Lo dico sul serio, e con la consapevolezza assoluta di quanto la saga sia degenerata dal primo episodio. Il primissimo Rocky non era solo un gran “film di menare”, era uno spaccato di America semplice ed efficace di quelli che colpiscono dritti allo stomaco, con un protagonista (Stallone, appunto) che ci credeva fortissimo e ha dimostrato a tutti quelli che lo davano per finito che sì, un italoamericano con un paio di porno brutti alle spalle e la faccia storta poteva essere un perfetto eroe delle masse. Era il sogno americano incarnato quel film, e ti restava dentro nonostante tutto, perché Silvestrone ci credeva così duro che un po’ la trasmetteva anche a te la fede.
Ragazzi, non son tanti i film sul pugliato che ti fan tornare a casa con le braccia al cielo, tirando pugni al vento e fischiettando una colonna sonora. Giusto un paio di Rocky ce la fanno, e che Creed potesse essere alla loro altezza nessuno lo credeva visto l’andazzo recente di Hollywood. Eppure Coogler ha cucinato un film che si poteva fare solo con due ingredienti: un sacco di amore per l’originale e un sacco di cervello. Due cose che son mancate al settimo episodio di Star Wars secondo me, checché ne dica il mondo.


Perché sto film è pieno di parallelismi, pieno zeppo, ma JJ dovrebbe guardarselo per capire che puoi rifarti al passato senza esserne succube. Già perché Coogler lo ama il primo film, e si vede, ma per tutto il tempo non fa altro che sussurrarti: “erano altri tempi, erano tanto belli, ma guarda cosa posso fare ora”. E te lo mostra davvero alla grande, cosa può fare ora. Può, ad esempio, mostrare un Rocky vecchio, debole e solo, che Stallone interpreta magnificamente. E si può dire tutto sulle doti da attore di Sly, ma Rocky è lui, è la sua creatura, e se lo devi far vedere verso la fine dei suoi giorni tanto vale trasmettergli tutto il carisma che ti rimane. Quindi sì, avrà pure la faccia di cemento Silvester, ma bastano quei due o tre cenni qua e là e quello sguardo che ci crede ancora a farti venire le manly tears. Viso di pietra, rivoli d’acqua che scendon dalle gote, e tu che pensi “piove”, ma in realtà sei al chiuso e stai piangendo. 
L’altra cosa che il buon Ryan Coogler può fare e mescolare il vero al falso, e mostrare una boxe più realistica sul ring, più violenta, secca e spettacolare, ma comunque lontana dagli incontri reali (che ormai sono tutta tecnica e poca sostanza il più delle volte). E li dirige proprio bene sti incontri, segue l’azione con scene lunghe e d’effetto, fa menare i pugili come se fosse uno scontro vero, ma al contempo ti fa sentire la forza di ogni cazzottone atomico con la stessa intensità con cui percepivi i pugnoni un po’ scoordinati del primissimo Rocky. Ed è bello. È proprio bello guardare un film nuovo, che ribalta un po’ tutto ma resta fedele all’originale, una storia di crescita e perdita che riesce a distanziarsi dal passato ma a trasmetterti più o meno le stesse emozioni.


E come ho detto Coogler si dimostra bravo, anzi, bravissimo a dare un tocco diverso alle scene più vicine all’originale, e molto abile a non esagerare mai, restando ancorato alla realtà. Quindi butta nel mix un protagonista facilmente irritabile, i discorsi incazzosi tra pugili pre-match, una colonna sonora che mescola musica moderna e temi che ti strizzano l’anima, e quel tocco un po’ televisivo che nel pugilato ci vuole. Trasmette i messaggi e le sensazioni di Rocky in un contesto più vivo, più credibile, più bello da vedere e con un ritmo migliore.
Hai detto cazzi.
Dunque guardatevelo sto film, rivivete per un paio d’ore buone i momenti più belli della vostra infanzia, tornate a casa, fingete di dare pugni a un avversario immaginario e metterlo K.O., e ridete sguaiatamente come rincoglioniti.

Il cinema di menare non è morto.

sabato 9 gennaio 2016

LE RECENSIONI AD CAZZUM - FILM: The Revenant

L’Oscar è una consacrazione eterna per un attore, una sorta di prova tangibile e gloriosa di aver toccato l’apice della recitazione. Il bello è che questa sorta di postulato sembra essersi marchiato a fuoco nel cervello della gente, anche se negli anni è capitato più volte che l’omino dorato finisse nelle mani di brocchi immeritevoli o produzioni non così brillanti.
Leonardo, sta minchia di statuetta, non l’ha vinta.
È strano, perché Di Caprio è un attore eccezionale, uno di quei mattatori che quando decidono di metterci impegno possono trascinare il più stanco dei film verso il traguardo ove deve arrivare, anche nella più completa solitudine. È ancor più strambo peraltro se si considera che il buon Leo l’impegno ce lo mette sempre, ma proprio sempre, come se ogni pellicola fosse una sfida contro sé stesso, un combattimento con un suo alter ego passato che va ASSOLUTAMENTE sconfitto.
Per diventare più bravo.
Per diventare più attore.
Perché lo spettro del regazzino acchiappafiga di Titanic ormai lo hai distanziato così tanto che non si vede più, e vuoi essere sicuro di non vederlo mai più. 
Però la statuetta stocazzo. Non gliela danno, e anche se a volerla veder tutta non ha mai avuto sfidanti così inferiori da doversela assicurare per forza, la cosa gli rode fortissimo. E specialmente tale furore sacro lo si nota nell’ultima opera di Inarritu, The Revenant. Perché alla domanda “uccideresti per un Oscar?” molti attori risponderebbero sì, ma al quesito “ti ammazzeresti per un Oscar?” l’unico ad annuire probabilmente sarebbe proprio Leonardo, e in questo film pare volerlo dimostrare ogni dieci minuti.
Quindi perdio, dategli sta statuetta, che se no finisce che perdiamo uno dei pochi attori veramente bravi che ci sono in circolazione.


Ma parliamo del film, The Revenant appunto, che è una di quelle pellicole praticamente obbligate ad appoggiarsi su attori e registi, poiché costruite su una trama fin troppo semplice. Si tratta in parole povere della storia di Hugh Glass, un leggendario esploratore dell’ottocento noto principalmente per essere sopravvissuto all’attacco di un orso. Il povero Glass aveva beccato un Grizzly con due cuccioli ed era riuscito ad ucciderlo prima di venir ferito mortalmente, ma vista l’entità dei danni e le scarse probabilità di sopravvivenza i due compagni che dovevano tenerlo d’occhio fino alla dipartita lo avevano abbandonato, fregandogli armi e provviste. Lui in tutta risposta è riuscito a riprendersi, si è nutrito di bacche e carcasse per settimane, ed è tornato al forte per vendicarsi dei simpaticoni che lo avevano lasciato lì a morire.
Non è che sia moltissimo su cui costruire, ma Inarritu è un uomo furbo e sa che bastano qualche modifica alla leggenda e un po’ di cervello per rendere un film potenzialmente banalissimo uno spettacolo. Quindi la storia l’ha un po’ rimaneggiata, trasformando Glass in un personaggio emarginato con tanto di figlio indiano meticcio al seguito, e inserendolo in una situazione ben più tesa e problematica di quella dove il fattaccio era avvenuto realmente. La Louisiana di The Revenant è infatti sì un luogo freddo, selvaggio e inospitale, ma è anche un campo di battaglia, dove gli indiani sono ancora una minaccia costante e la morte arriva all’improvviso. Glass è un personaggio rispettato per la sua abilità, e risulta indispensabile alla squadra di coloni di cui fa parte per tornare al campo base dopo un brutale attacco dei pellerossa. Così, quando l’attacco dell’orso arriva, sono sufficienti la presenza del figlio e una curata caratterizzazione dei due compagni che lo abbandonano a dare tutta un’altra carica drammatica alla situazione.
Cosa succede esattamente è intuibile, anche se non sto a spoilerarvelo. Voi sappiate solo che il carico della cattiveria se lo mette in spalla tutto Tom Hardy nei panni del rozzo e pragmatico Fitzgerald, e che riesce davvero bene a farsi odiare, nonostante una parlata davanti a cui uno con una decina di stracci in bocca potrebbe tranquillamente passare per Ivo de Palma (il film lo ho visto in inglese, se in Italiano Hardy sia altrettanto incomprensibile non mi è dato saperlo).


Una volta date le sue belle pennellate col pene (perché per fare una grande parete ci vuole un grande pennellen), Inarritu si è dunque spianato la strada per fare quello che gli riesce meglio: i piani sequenza.
E io non sono un fan dei piani sequenza, giuro, non mi fanno impazzire, li ritengo belli solo quando inseriti sensatamente in una regia solida. Però Inarritu te li fa piacere a forza, te li butta giù con un imbuto finché non sei sazio, e alla fine del film ti rendi conto che sto pasto con cui ti hanno ingozzato ti è piaciuto, e pure parecchio. Questo perché li usa da dio, vaga nell’azione come uno spettro, segue i momenti con una naturalezza quasi inquietante, e costruisce attorno ai movimenti della telecamera delle scene assolutamente incredibili. Tipo l’attacco degli indiani iniziale, che grazie alla regia inchioda gli occhi dello spettatore allo schermo e diventa immediatamente memorabile. O ancora la scena dell’attacco dell’orso, dove Inarritu si sofferma molto di più sulla sofferenza di Di Caprio, e riesce mantenere l’inquadratura sempre nel posto più adatto per rendere tutto il più brutale e cristallino possibile, senza però sacrificare quello scorrere naturale che contraddistingue tutto il film.
Quell’Oscar preso con Birdman il buon Alejandro insomma se lo merita tutto, e a fare il resto ci pensano due cosucce non da poco: la musica di Ryuichi Sakamoto (se non sapete chi è avete privato le vostre orecchie di tante cose bellissime, e provo pietà per voi), e il succitato Leonardone, che tira fuori dal taschino una delle interpretazioni più sublimi che abbia mai visto.


Oh, Di Caprio nel film parla a malapena. Già lo presentano come un uomo di poche parole, quando poi si ferisce alla gola non ne proferisce più mezza per l’ottanta per cento della pellicola, se non in un mugolio rauco di disperazione. Eppure riesce a trasmettere tutto il dolore del suo personaggio, sembra veramente ferito, zoppicante e con mezzo corpo in cancrena. Ogni suo muscolo facciale è un concentrato di furia, tristezza e sofferenza. Lo fissi estasiato per tutta la pellicola, due ore e trenta di film in cui vuoi capire come farà ad arrivare a quel fottuto forte e a vendicarsi di quel cane di Fitzgerald, e in cui attraverso lui osservi una Louisiana dai paesaggi meravigliosi, ma popolata in larga parte da gente che ormai ha deciso che la gentilezza è solo un modo stupido per morire. I pochi che ancora si attaccano alla loro umanità rappresentano l’unico barlume di speranza del film assieme alla tenacia incrollabile di Glass. Ed è giusto chiamarlo Glass, perché Di Caprio non fa come buona parte degli attori italiani, che hanno il vizio maledetto di interpretare se stessi invece di un personaggio, ma entra proprio nella testa del suo alter ego, DIVENTA lui. Ed è lì che inizi a preoccuparti, perché lo vedi mangiare pesce crudo e carne insanguinata appena tagliata da una carcassa, lo vedi dormire in un cadavere di cavallo appena squartato e tremare al gelo. Roba che Bear Grylls gli fa una sega, e ti chiedi chi cazzo glielo abbia fatto fare. Costantemente.
Poi lo guardi negli occhi, vedi il fuoco, e capisci.

DATEGLI. LA. STATUETTA.

venerdì 1 gennaio 2016

LE RECENSIONI AD CAZZUM - LIBRI: American Gods di Neil Gaiman

Bene, è l’inizio dell’anno e scrivo. Scrivo perché ne ho bisogno, è un modo come un altro di svuotare la mente e concentrarmi su cose che non sono “il presente” e in questo periodo mi serve più che mai.
Ho deciso di scrivere un’altra recensione ad cazzum, su un libro che ho letto recentemente ed è riuscito a staccarmi dalla realtà quel tanto che basta a farmi star bene (cristo santo, sembro Kylo Re... ahem, volevo dire un emo qualsiasi, meglio finirla). Un libro che merita davvero di esser letto. Da chiunque, non solo da coglioni depressi con la barba come il sottoscritto. Ah, come al solito SPOILER ALERT.


Il libro in questione è American Gods di Neil Gaiman, e se non sapete chi è Neil Gaiman vuol dire che non avete mai letto Sandman. Lo capisco, non è che dalle nostre parti lo abbiano letto in tantissimi, però tra i fumetti c’è davvero poca roba di quel livello lì, quindi se vi piacciono i paginoni disegnati con le nuvolette dei dialoghi fate un favore al vostro io interiore e tentate di recuperarlo. Ne vale davvero la pena, basta superare indenni l’inizio un po’ fiacco.
Ma sto divagando, che poi è la cosa che faccio sempre, quindi torniamo in carreggiata parlando, appunto, di American Gods. È una carreggiata di quelle belle accoglienti, dove si guida tranquilli, con curve che quasi ti cullano e senza rompicoglioni attorno. Sì insomma, è un libro della madonna. Non che ci fosse dubbio alcuno sulla qualità del testo, almeno per chi Sandman lo ha letto, però un libro è una cosa diversa da un fumetto e fa piacere notare come Gaiman sia uno dei pochi autori in grado di destreggiarsi senza troppi sforzi in varie forme di scrittura. Il bello è che American Gods non è nemmeno facile da inserire in un genere preciso: è un fantasy moderno, chiaramente, ma è ricchissimo di mitologia e finemente ricercato, al punto da non poter essere strizzato nelle spesso sottilissime mura della generalizzazione. Si tratta, in larga parte, di uno spaccato dell’America e della sua storia visto con l’occhio neutrale di uno che arriva dall’esterno ma ha poi scelto di vivere lì. Una neutralità che a Gaiman dà modo di descrivere anche il peggio degli States, specie quando ci si avvicina al loro non proprio luminosissimo passato.
D’altronde la premessa del libro è terreno fertile per un racconto così multiforme. Gli dei, in American Gods, sono reali. Credere in una divinità e venerarla la porta ad esistere e non c’è posto al mondo dove se ne trovano di più dell’America, un melting pot di popolazioni che hanno portato creature ancestrali dall’Africa, figure mitologiche dall’est Europa, guardiani dell’oltretomba dall’Egitto e quant’altro. L’America è però anche un posto pessimo per gli dei, un luogo dove difficilmente possono prosperare, visto il consumismo imperante e le deboli radici di chi gli dà forma. Gaiman gioca a meraviglia con questa situazione, dando vita a un mondo vicino, anzi, vicinissimo a quello reale, ma popolato da un numero smodato di personaggi brillanti, le cui vicende ruotano attorno al protagonista, Shadow.
Ora, per quanto mi riguarda, già riuscire a dare una dignità a un personaggio che va in giro dicendo di chiamarsi “ombra” è un’impresa che ben pochi sono in grado di compiere. Gaiman vi riesce, e rende persino Shadow un protagonista tra i più riusciti che io abbia mai visto. Shadow è perfetto per questo libro: è un uomo tranquillo, che ha avuto guai con la legge e a cui crolla il mondo addosso nel giorno della redenzione, proprio quando viene rilasciato dalla prigione in cui si trova per una rapina andata malamente. Un bestione che sa badare a sé stesso, eppure emana di rado un’aura minacciosa e manifesta davvero ben poche emozioni mentre vaga per gli Stati Uniti. Come viene descritto a un certo punto durante il libro, Shadow sembra più “un buco a forma di uomo che un essere vivente”, è un personaggio silenzioso, misterioso, che si ritrova catapultato negli eventi a causa di segreti ben più grandi di quanto prevedibile, eppure è davvero difficile non tifare per lui in mezzo a tutte le tragedie che gli capitano e davanti alla sua capacità quasi (e dico “quasi”) incrollabile di mantenere un comportamento gentile e dignitoso anche davanti a situazioni terribili. Shadow è il compagno ideale del lettore, un contraltare riuscitissimo a qualunque personaggio inserito nella novella, indipendentemente da quanto il comprimario sia folle o caricaturale. E di personaggi fuori di testa ce ne sono in sto libro, oh se ce ne sono...


Come ho detto, Gaiman ha fatto le sue ricerche ed ha tirato fuori divinità di ogni tipo dal cappello, partendo dal carismatico Mr.Wednesday, in realtà un noto dio Nordico che mette tutto in moto. Non si è limitato però a riempire la trama di personalità indimenticabili, e ha pensato bene di spezzare le vicende principali con flashback e sequenze oniriche di rara qualità. Non si infilano a forza nella narrazione, non disturbano chi legge, e al contempo rendono tutto più chiaro e dettagliato, donando importanti tessere del puzzle ai più attenti. Storie nella storia che non stonano, una specialità del buon Neil che gli ha permesso di mantenere scorrevole un libro di quelli davvero massicci quanto a numero di pagine.
Il risultato finale è quasi un misto tra un compendio di leggende e un gioco, uno di quei libri dove l’autore sfida per certi versi il lettore a riconoscere gli dei e le storie mitologiche che inserisce nelle sue pagine. E sia chiaro, finché si tratta di divinità egizie è ancora ancora facile orientarsi, ma poi iniziano ad apparire dei davvero oscuri e sconosciuti ai più, ed è un gioco mentale davvero curioso il cercare di intuire chi è chi mentre si avanza tra i capitoli. E tutta sta bontà, non bastasse, si regge su una storia di quelle che filano via come il buon vino, strutturata da dio (HA! Ok mi sotterro),  e rafforzata da un paio di colpi di scena che sono sì intuibili, ma dannatamente ben pensati e infilati nel mix, con quel giusto quantitativo di indizi in sottofondo per non rovinare la sorpresa ma al contempo tenere il lettore sulle spine. C’è anche la morale, o “le” morali, nascoste tra le pieghe della storia e le “nuove” divinità nate dalla società odierna. In parole povere, c’è tutto quello che dovreste volere da un gran bel libro, e proprio questo è American Gods, un gran bel libro, pensato bene, scritto meglio, e chiuso alla perfezione. Piccolo consiglio prima di comprarlo a scatola chiusa: tenete a mente che è anche molto maturo, che al suo interno non mancano momenti piuttosto crudi (dove per “crudo” intendo il livello “uomo divorato da una vagina magica”, non scherzo) e che persone molto religiose potrebbero urlare “alla blasfemia” ogni tot pagine. Uh, considerate anche che lo ho letto in inglese e che quindi mi riesce difficile valutare se la traduzione italiana sia all’altezza o meno del testo originale, ma anche sticazzi, dubito che si sia imbruttito poi molto con il passaggio al nostro bell’idioma.


Da leggere. Tipo ora. Che se no siete brutte persone. E si spera che non lo stuprino troppo con l’arrivo in tv, visto che stanno lavorando su una serie televisiva dedicata. Ma che dico... ovvio che manderanno tutto a puttane. Motivo in più per leggere il libro.