L’Oscar è una consacrazione eterna per un
attore, una sorta di prova tangibile e gloriosa di aver toccato l’apice della
recitazione. Il bello è che questa sorta di postulato sembra essersi marchiato
a fuoco nel cervello della gente, anche se negli anni è capitato più volte che
l’omino dorato finisse nelle mani di brocchi immeritevoli o produzioni non così
brillanti.
Leonardo, sta minchia di statuetta, non l’ha vinta.
È strano, perché Di Caprio è un attore eccezionale, uno di
quei mattatori che quando decidono di metterci impegno possono trascinare il
più stanco dei film verso il traguardo ove deve arrivare, anche nella più
completa solitudine. È ancor più strambo peraltro se si considera che il buon Leo
l’impegno ce lo mette sempre, ma proprio sempre, come se ogni pellicola fosse
una sfida contro sé stesso, un combattimento con un suo alter ego passato che
va ASSOLUTAMENTE sconfitto.
Per diventare più bravo.
Per diventare più attore.
Perché lo spettro del regazzino acchiappafiga di Titanic
ormai lo hai distanziato così tanto che non si vede più, e vuoi essere sicuro di
non vederlo mai più.
Però la statuetta stocazzo. Non gliela danno, e anche se a
volerla veder tutta non ha mai avuto sfidanti così inferiori da doversela
assicurare per forza, la cosa gli rode fortissimo. E specialmente tale furore
sacro lo si nota nell’ultima opera di Inarritu, The Revenant. Perché alla
domanda “uccideresti per un Oscar?” molti attori risponderebbero sì, ma al
quesito “ti ammazzeresti per un Oscar?” l’unico ad annuire probabilmente
sarebbe proprio Leonardo, e in questo
film pare volerlo dimostrare ogni dieci minuti.
Quindi perdio, dategli sta statuetta, che se no finisce che
perdiamo uno dei pochi attori veramente bravi che ci sono in circolazione.
Ma parliamo del film, The Revenant appunto, che è una di
quelle pellicole praticamente obbligate ad appoggiarsi su attori e registi, poiché
costruite su una trama fin troppo semplice. Si tratta in parole povere della
storia di Hugh Glass, un leggendario esploratore dell’ottocento noto
principalmente per essere sopravvissuto all’attacco di un orso. Il povero Glass
aveva beccato un Grizzly con due cuccioli ed era riuscito ad ucciderlo prima di
venir ferito mortalmente, ma vista l’entità dei danni e le scarse probabilità
di sopravvivenza i due compagni che dovevano tenerlo d’occhio fino alla
dipartita lo avevano abbandonato, fregandogli armi e provviste. Lui in tutta
risposta è riuscito a riprendersi, si è nutrito di bacche e carcasse per
settimane, ed è tornato al forte per vendicarsi dei simpaticoni che lo avevano
lasciato lì a morire.
Non è che sia moltissimo su cui costruire, ma Inarritu è un
uomo furbo e sa che bastano qualche modifica alla leggenda e un po’ di cervello
per rendere un film potenzialmente banalissimo uno spettacolo. Quindi la storia
l’ha un po’ rimaneggiata, trasformando Glass in un personaggio emarginato con
tanto di figlio indiano meticcio al seguito, e inserendolo in una situazione
ben più tesa e problematica di quella dove il fattaccio era avvenuto realmente.
La Louisiana di The Revenant è infatti sì un luogo freddo, selvaggio e inospitale,
ma è anche un campo di battaglia, dove gli indiani sono ancora una minaccia
costante e la morte arriva all’improvviso. Glass è un personaggio rispettato
per la sua abilità, e risulta indispensabile alla squadra di coloni di cui fa
parte per tornare al campo base dopo un brutale attacco dei pellerossa. Così,
quando l’attacco dell’orso arriva, sono sufficienti la presenza del figlio e
una curata caratterizzazione dei due compagni che lo abbandonano a dare tutta
un’altra carica drammatica alla situazione.
Cosa succede esattamente è intuibile, anche se non sto a
spoilerarvelo. Voi sappiate solo che il carico della cattiveria se lo mette in
spalla tutto Tom Hardy nei panni del rozzo e pragmatico Fitzgerald, e che riesce
davvero bene a farsi odiare, nonostante una parlata davanti a cui uno con una
decina di stracci in bocca potrebbe tranquillamente passare per Ivo de Palma
(il film lo ho visto in inglese, se in Italiano Hardy sia altrettanto
incomprensibile non mi è dato saperlo).
Una volta date le sue belle pennellate col pene (perché per
fare una grande parete ci vuole un grande pennellen), Inarritu si è dunque
spianato la strada per fare quello che gli riesce meglio: i piani sequenza.
E io non sono un fan dei piani sequenza, giuro, non mi fanno
impazzire, li ritengo belli solo quando inseriti sensatamente in una regia
solida. Però Inarritu te li fa piacere a forza, te li butta giù con un imbuto
finché non sei sazio, e alla fine del film ti rendi conto che sto pasto con cui
ti hanno ingozzato ti è piaciuto, e pure parecchio. Questo perché li usa da
dio, vaga nell’azione come uno spettro, segue i momenti con una naturalezza
quasi inquietante, e costruisce attorno ai movimenti della telecamera delle
scene assolutamente incredibili. Tipo l’attacco degli indiani iniziale, che
grazie alla regia inchioda gli occhi dello spettatore allo schermo e diventa
immediatamente memorabile. O ancora la scena dell’attacco dell’orso, dove
Inarritu si sofferma molto di più sulla sofferenza di Di Caprio, e riesce
mantenere l’inquadratura sempre nel posto più adatto per rendere tutto il più
brutale e cristallino possibile, senza però sacrificare quello scorrere
naturale che contraddistingue tutto il film.
Quell’Oscar preso con Birdman il buon Alejandro insomma se
lo merita tutto, e a fare il resto ci pensano due cosucce non da poco: la
musica di Ryuichi Sakamoto (se non sapete chi è avete privato le vostre
orecchie di tante cose bellissime, e provo pietà per voi), e il succitato
Leonardone, che tira fuori dal taschino una delle interpretazioni più sublimi
che abbia mai visto.
Oh, Di Caprio nel film parla a malapena. Già lo presentano
come un uomo di poche parole, quando poi si ferisce alla gola non ne proferisce
più mezza per l’ottanta per cento della pellicola, se non in un mugolio rauco
di disperazione. Eppure riesce a trasmettere tutto il dolore del suo
personaggio, sembra veramente ferito, zoppicante e con mezzo corpo in cancrena.
Ogni suo muscolo facciale è un concentrato di furia, tristezza e sofferenza. Lo
fissi estasiato per tutta la pellicola, due ore e trenta di film in cui vuoi
capire come farà ad arrivare a quel fottuto forte e a vendicarsi di quel cane
di Fitzgerald, e in cui attraverso lui osservi una Louisiana dai paesaggi
meravigliosi, ma popolata in larga parte da gente che ormai ha deciso che la
gentilezza è solo un modo stupido per morire. I pochi che ancora si attaccano
alla loro umanità rappresentano l’unico barlume di speranza del film assieme
alla tenacia incrollabile di Glass. Ed è giusto chiamarlo Glass, perché Di
Caprio non fa come buona parte degli attori italiani, che hanno il vizio
maledetto di interpretare se stessi invece di un personaggio, ma entra proprio
nella testa del suo alter ego, DIVENTA lui. Ed è lì che inizi a preoccuparti,
perché lo vedi mangiare pesce crudo e carne insanguinata appena tagliata da una
carcassa, lo vedi dormire in un cadavere di cavallo appena squartato e tremare
al gelo. Roba che Bear Grylls gli fa una sega, e ti chiedi chi cazzo glielo
abbia fatto fare. Costantemente.
Poi lo guardi negli occhi, vedi il fuoco, e capisci.
DATEGLI. LA. STATUETTA.
Sempre interessante leggere quello che scrivi, non vedo l'ora di vedere il film
RispondiEliminatanto si sa che la daranno all'orso la statuetta
RispondiEliminaappena finito. che dire la regia e di caprio sono fantastici e tom hardy è davvero riuscito nel suo ruolo, il doppiaggio di hardy non l'ho molto apprezzato ma almeno era comprensibile ahah. Le due ore e mezzo ahimè si sentono rendendo un po' pesante il film nelle parti centrali ma ha un gran bel inizio e un bella fine, il film non credo che meriti l'oscar ma di caprio si!
RispondiEliminama che c'azzecca la Louisiana (dove la neve, e soprattutto le montagne, la vedono col binocolo, e dove la temperatura media è di 25 gradi)? ;)
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